L’architettura della Corea del Sud è stata protagonista di due importanti eventi a Messina e Milazzo, organizzati dall’Ordine Provinciale degli Architetti, dalla Fondazione Architetti nel Mediterraneo in collaborazione con Claudio Lucchesi dello studio internazionale Urban Future Organization, recentemente insignito di menzione speciale al World Architectural Festival di Berlino per il progetto del Messina Policenter per il nuovo waterfront della città dello Stretto.

Le due conferenze hanno fatto emergere tutta la complessità di un paese con delle solide radici nel proprio passato, funestato fino a tutto il secolo scorso, da guerre e dominazioni straniere, ma capace di risollevarsi sotto il profilo sociale, economico e culturale fino a diventare una delle nazioni più avanzate del pianeta. L’architettura contemporanea della Corea del Sud ne è uno dei risvolti e la città di Seoul diventa il paradigma della moderna metropoli capace di rigenerarsi in continuazione, senza temere il confronto con il suo passato. Con la mostra “SixArchitects. Section of Autonomy”, allestita a Milazzo, presso la Biblioteca Comunale di Palazzo D’Amico (11 novembre-3 dicembre 2017), è stato possibile vedere e toccare con mano (corposi i volumi cartacei contenenti i particolari costruttivi delle opere) alcuni dei progetti di sei talenti coreani, lanciati nel mondo della professione nei primi anni ’90, quando il paese timidamente di presentava al mondo, ad esempio, con l’organizzazione dei Giochi Olimpici di Seoul (1992). Uno dei sei progettisti è anche architetto capo proprio della città di Seoul che sta affrontando la sfida della città globale lanciando tanti piccoli e grandi concorsi di progettazione. Come ha ricordato Pino Falzea, Presidente dell’Ordine di Messina, questa grande attività di rigenerazione porta a coordinare fino a 400 professionisti diversi, in un’ottica nella quale la progettazione delle opere e la loro esecuzione vengono costantemente monitorate e – questo è l’elemento che non potrebbe essere più diverso dalla prospettiva mediterranea dei lavori pubblici – nel caso sia evidente l’incoerenza delle soluzioni agli obiettivi, tutto viene messo in discussione al fine di ottenere sempre la migliore qualità urbana possibile.

 

Per capire meglio l’architettura coreana, il rapporto tra il mondo del progetto e quello dell’economia, come appare l’Italia agli occhi di un paese diversissimo dal nostro, abbiamo posto, a margine della conferenza tenuta a Milazzo, alcune domande al Prof. Choiwon-joon (SoongsilUniversity) curatore dell’esposizione di Palazzo D’Amico.

 

Prof. Choi l’Italia è un paese soffocato in una crisi nella quale anche la figura dell’architetto sta perdendo visibilità, rispetto e peso sociale. Ci può tratteggiare l’immagine che la figura dell’architetto ha in un paese in costante ascesa come la Corea del Sud?

Nell’opinione pubblica, l’architettura è stata per lo più considerata come parte dell’industria delle costruzioni e del mercato immobiliare, la forza motrice della crescita economica del paese. Nei primi anni ’90, un gruppo di architetti ha tentato di presentare la disciplina come parte della produzione culturale, attraverso incontri pubblici, e ha assunto un ruolo cruciale nella fondazione di un nuovo sistema di architettura pubblica e urbana; inoltre ha dato vita, proprio questo autunno, alla prima Biennale di Architettura e Urbanistica di Seoul. La rilevanza culturale dell’architettura e il ruolo sociale dell’architetto agli occhi dei coreani, sono conquiste recenti.

 

La mostra racconta le opere (realizzate) di un gruppo di architetti che hanno esordito nella professione mentre il loro paese virava verso la democrazia, lanciando anche l’architettura verso un orizzonte che andava oltre il 38° parallelo. Come nella Spagna postfranchista e il Portogallo post Salazar, il progetto (urbano e architettonico) è il banco sui cui si misura immediatamente la volontà di cambiamento. Nella vecchia Europa l’architettura di regime ha lasciato il passo a forme, più o meno spinte, di regionalismo critico. Nella Corea del Sud di fine anni ’80 ha prevalso l’internazionalizzazione o il recupero delle tradizioni?

Subito dopo l’Indipendenza, nel 1945, il paese ebbe un altro sfortunato periodo: la guerra di Corea dal 1950 al 1953. Pertanto il dibattito su tradizione o internazionalizzazione è stato avviato solo a partire dagli anni ’60, quando la Corea iniziò a superare le gravi necessità della ricostruzione. Da quel momento, la modernizzazione della tradizione divenne il tema centrale dell’architettura per un periodo abbastanza lungo, almeno fino alla metà degli anni ’90, attraversando diverse fasi, come il passaggio nell’approccio al progetto dalla “forma” allo “spazio”. Gli architetti presenti alla mostra appartengono alla prima generazione che non ha apertamente discusso di tradizione, lavorando in un ambiente proiettato all’internazionalizzazione; le loro opere, tuttavia, mantengono il loro regionalismo nella misura in cui riescono ad accettare nel progetto le condizioni del contesto.

 

La generazione di architetti coreani in mostra ha dei corrispettivi (per concreta visionarietà, capacità produttiva e internazionalizzazione) tra i progettisti italiani?

La premessa di base della mostra è proprio quella che le caratteristiche che si trovano nei sei architetti coreani derivano da condizioni uniche, (circostanze sociali, contesto culturale, disponibilità materiale). Pertanto è abbastanza difficile trovare casi simili o equivalenti in altri paesi, a prescindere dall’apparente presenza di architetti di età simile, metodi operativi, stile, e riconoscimento internazionale.

 

C’è un nesso tra qualità dell’architettura contemporanea e PIL? Ovvero è ancora possibile progettare e realizzare belle opere in Paesi con una economia stagnante?
Tra tutti le imprese creative, l’architettura è la più dipendente dal benessere economico della sua nazione. L’architettura è spesso una produzione sociale e ciò che un architetto può fare è legato a ciò che il paese può sostenere economicamente e a quali sono le esigenze pubbliche: un fattore inevitabilmente associato alla prosperità economica. Poi c’è anche la capacità tecnica nel campo delle costruzioni. In tutta la storia dell’umanità, è stata prodotta arte anche in stati economicamente svantaggiati, tuttavia è difficile trovare esempi di grandi architetture in tali condizioni.

 

Torniamo alla Sicilia, baricentro del Mediterraneo, luogo agli antipodi non solo geografici rispetto al rigore orientale. Nell’Isola non manca il fermento culturale attorno al mondo della rigenerazione urbana e del progetto di architettura. Manca, forse, una “narrazione” delle sfide e dei risultati che con fatica si raggiungono. Quanto è importante comunicare l’architettura, come fa – ad esempio – questa mostra allestita in una città di provincia, lontana dai grandi poli economici, culturali e politici del Paese?

Mi riaggancio alla questione della domanda precedente: le aree vicine ai centri strategici possono avere una cultura locale più ricca, ma nella maggior parte dei casi hanno minori mezzi per avviare politiche di rigenerazione, principalmente a causa delle loro capacità economiche. Per ottenere il consenso del pubblico verso la rigenerazione urbana entro limiti economici, la condivisione della giusta narrativa è di gran lunga più necessaria. In Corea negli ultimi anni, sono stati fatti vari tentativi di costruire un racconto sociale sotto forma di narrazione, non solo nel giornalismo e nel turismo, ma anche nell’architettura e nell’urbanistica.

 

arch. Domenico Mollura

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da sinistra: Jonas Lundberg (Ufo Goteborg), Claudio Lucchesi (Ufo messina), Prof. Choi Won-joon (ideatore della mostra), Kim Young-joon (city architect of Seoul, Yo2) Kim Seung-hoy (KYWC Architects), Andrew Yau (Ufo London)

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