Intervista di Ivana Elmo ad Alessio Princic
I. E. La scultura dal titolo “Piazza”, di Alberto Giacometti, crocevia di esili figure bronzee, viene da Lei menzionata, durante l’intervento tenuto a Messina lo scorso 16 luglio1, come un’opera in grado di restituire l’essenza stessa della città. Affermando con ciò che il massimo grado di “preesistenza” cui dare ascolto, per un architetto, deve essere – alla radice – l’uomo, assieme a tutto il suo patrimonio genetico e culturale, assieme a tutta la sua naturale propensione relazionale con l’altro da sé.
Fatto assai singolare, Lei ha lasciato che, durante l’intervento, noi uditori scavassimo tra le pieghe della memoria, o tra le iperboli della nostra immaginazione, per ricostruirci i confini evanescenti di questa piazza-scultura, mentre il Suo power-point proiettava sullo schermo immagini delle maggiori città d’Europa e del mondo – immagini ritraenti non l’iconicità dei rispettivi e più usurati luoghi comuni, ma degli scorci urbani poco noti, comunque rappresentativi di ciascuna città per la texture dei materiali figuranti e la particolare incidenza del sole su di essi, quindi, per il carattere più o meno accogliente e articolato dello spazio pubblico.
Nell’era in cui Parigi resta pur sempre identificabile attraverso la Tour Eiffel, nonostante il più contemporaneo Grande Arche a La Defense o l’antesignano Centre Pompidou, mentre la Londra del Big Ben sembra più chiaramente cedere il proprio tratto distintivo al grattacielo tondeggiante di Foster; nell’era in cui è unicamente il brand delle archistar a catturare su di sé tutte le aspettative identitarie e rappresentative della città generica, fagocitando la dimensione umana della città tradizionale, non crede che la poesia evocata in noi dall’opera di Giacometti possa risultare ai più del tutto anacronistica o nostalgicamente improbabile?
A.P. Se guardiamo il mondo in modo superficiale ci accorgiamo di quanta verità troviamo in questa domanda.
Oggi devi apparire per non perderti, devi mostrare e mostrarti per non scomparire. Forse abbiamo paura di rimanere soli o di non essere riconosciuti. L’apparire è un valore momentaneo creato da noi stessi per salire sul podio e per venderci o vendere, ma per vivere apparire non è necessario.
Se poi abbiamo il coraggio di andare a guardare quanto sia grande il nostro apparire nel mondo conosciuto, scopriamo che a stento arriva alle dimensioni di un granello di sabbia.
La piazza di Giacometti non disegna solo il movimento delle persone, disegna l’area dell’azione del camminare, un vuoto sotteso dai bordi perimetrali che tutti vediamo.
Lo spazio che poi diventa architettura è il valore più alto della democrazia e della cultura e dell’identità di un popolo. Esso è il principio primo delle arti e delle azioni del genere umano.
Ogni spazio è diverso perché prende dalla natura, diversa da luogo a luogo, ogni spazio ha la sua identità.
Nell’identità troviamo la forza. La forza del luogo è ciò che cerchiamo quando peregriniamo di città in città, di spazio in spazio. Forse non la capiamo, ma nel nostro subconscio risveglia le emozioni che ci fanno esclamare: «wow, hai visto?», oppure: «che infinito!», etc. etc.
Se la natura mantiene ancora la sua diversità da chilometro a chilometro, l’architettura è quasi uniformata, triste, monotona, almeno fino a quando non arrivi nei pressi del CENTRO, dove ti trovi a tuo agio, dove riscopri l’essenza del luogo, dove ti siedi a guardare, dove la gente fa la coda per entrare.
Perché? Perché i centri storici sono identificabili, hanno l’anima, sono vivi, parlano, si mostrano, ci raccontano.
Perché passeggiare lungo il canale della Giudecca ti apre il cuore, mentre passeggiare a Mestre ti fa emergere solo incubi? Il perché risiede nello SPAZIO. Questo luogo reale – e non immaginario – ha più valore del cetriolo di Foster: non svetta, ma si percepisce. Quando lo si attraversa, senti che ti graffia la pelle, senti il brivido dell’emozione. Se ciò non fosse vero molti passerebbero le loro vacanze in uno qualsiasi dei simboli della modernità architettonica svettante, e non alle cinque terre, per fare un esempio.
I. E. Il concetto di preesistenza è senza dubbio uno dei temi cruciali per chi si prepara alla professione di architetto in un contesto ambientale stratificato quale è quello italiano – sia se ci riferiamo ai centri storici, sia se ci rivolgiamo al territorio più o meno antropizzato lungo i margini della città. Nel Suo intervento ha reso una testimonianza, vissuta in qualità di docente di Progettazione Architettonica, molto significativa per comprendere la reale difficoltà che ha lo studente di architettura ad appassionarsi alla ricerca di tutti quei fattori contestuali fortemente condizionanti la mera fantasia, eppure potenzialmente entusiasmanti se affrontati attraverso l’esperienza del sopralluogo.
Perché, secondo Lei, vi è un così diffuso disinteresse da parte dello studente di architettura verso il “mistero” – termine a Lei molto caro – che si cela dietro le origini e le dinamiche di un luogo, in favore del gesto autoreferenziale e gratuito, privo di “limitazioni” espressive?
A.P. Mistero è un termine che racchiude tanti significati. Mistero è qualcosa di sconosciuto, qualcosa che fa paura, che si cerca di evitare. Se vogliamo indagare sul mistero dobbiamo studiare, dobbiamo andare alla ricerca.
Cercare nei luoghi profondi dove si cela la cultura è un lavoro estremamente impegnativo e difficile.
Quando decidiamo di affrontare un viaggio verso una meta che esiste ma che è a noi sconosciuta cosa facciamo? Compriamo i libri ad essa inerenti, cerchiamo in rete, ci culturizziamo al fine di arrivare preparati. La logica conseguenza è il non conosciuto che lentamente diventa qualcosa di tattile, da non temere.
Prima di affrontare il mistero dobbiamo arricchirci culturalmente, percorrere molte strade, cercare nelle deviazioni dalla strada maestra i piccoli indizi che ci aiutano, tassello dopo tassello, a comporre il mosaico che ci interessa.
Dobbiamo conoscere la storia, i cambiamenti del tessuto urbano, studiare il muoversi delle persone, capire la vita di oggi, guardare il movimento delle ombre e il gioco della luce, conoscere la texture dei materiali, capire i profumi del posto, capire come diventare parte della natura, conoscere la democrazia di un popolo attraverso gli elementi locali.
La democrazia è fortemente legata all’identità culturale di un popolo.
Purtroppo, dobbiamo faticare molto per accumulare quel sapere. Molto, prima di iniziare a “tirare righe”.
È un percorso talmente complesso, difficile e faticoso, che viene evitato dalla maggior parte dei docenti, che preferiscono strade più facili.
Se dalla cattedra arriva questo segnale, come possiamo pretendere che lo studente inizi il percorso da solo?
Nelle scuole di architettura del ‘500, per fare un esempio, nessuno nasceva architetto, perché iniziava nella bottega come scalpellino, conosceva cosi il materiale, le forme, l’armonia. E solo se era talentuoso poteva poi pensare di disegnare qualcosa.
Pensiamo solo a Giorgio Massari che, nel 1724, costruendo Santa Maria del Rosario per i Domenicani, ha dovuto contrapporsi alle chiese del Palladio. Proviamo ad immaginare il suo tormento, a quanto avrà sofferto per un compito di così alto prestigio; ai dubbi su cosa fare, su come fare, per essere pari ad un grande, 200 anni dopo. Oppure, proviamo a pensare al Longhena, che è emerso perché provocatorio nel concorso per la Chiesa della Salute. Qui ha fuso cultura cattolica ed ebraica sui multipli dell’otto, simbolo di rinascita, e dell’11, inteso come valore negativo, ricalcando la clavicola di Salomone in pianta; proviamo solo a pensare quanto doveva conoscere, prima di fondere questa conoscenza in un opera di così grande plasticità e potenza.
Oggi, l’architetto si sente perso nella folla, allora pensa: «devo farmi vedere, per farmi vedere devo fare qualcosa che si veda. Vediamo… Massì, facciamo una cosa storta. Meglio, così si vede. Se si vede esisto: wow, sono qui»!
Oppure possiamo scimmiottare, ma il prodotto che nascerà non sarà rispettoso dell’investimento, dell’ambiente, della storia. Mi permetto di urlare: “se non costruisci prima te stesso dentro, come puoi pensare di costruire qualcosa per andare dentro”!
I. E. In qualità di architetto progettista, autore di opere di architettura pubbliche e private, si sarà certamente scontrato con la più difficile delle preesistenze: la committenza e il suo bagaglio di aspettative spaziali derivanti molto spesso da un immaginario domestico o ambientale coltivato superficialmente, ora sfogliando riviste non specialistiche periodicamente allegate ai quotidiani, ora navigando su internet, ora guardando la TV… [penso qui, in particolare, alla “casa di Montalbano”, oggi una delle attrazioni turistiche più battute della Sicilia].
Può raccontarci qualche aneddoto su come sia stato possibile per Lei scardinare la pre-resistenza del committente in direzione di una Sua scelta progettuale? Di contro, Le è mai capitato di dover rinunciare utilmente alla propria visione progettuale in favore delle richieste del committente?
A.P. Il cliente è una persona da rispettare, perché spesso affida ad un professionista i risparmi di una vita per risolvere il problema del “VIVERE”.
L’architetto ha il dovere di ascoltare il cliente, di iniziare con lui un dialogo per portare alla luce i problemi della committenza. Committenza che molto spesso non sa cosa vuole, e non sa come vorrebbe vivere. Committenza che ha paura del giudizio degli altri e che, quindi, chiede conferme agli amici. Questi ultimi, poi, non dovendo operare sulla propria casa, si sentono liberi di spargere giudizi e consigli in quantità.
Un cliente è un remigino, insicuro, timoroso, non sa dove andare, cosa fare, ha bisogno di fiducia, bisogna spiegargli l’importanza dello spazio, della luce, della pulizia progettuale, della logica, ha bisogno di capire che l’architettura è fatta di spazio, di luce e di percorsi. Mai di materiali costosi e luccicanti.
Inoltre: «la casa non è solo un posto dove mangiare, dormire, togliersi le scarpe, stare comodi, ma un posto che ha un atmosfera di bellezza, di riposo, di fascino, qualità che appartengono allo spirito», così Wright, in Architettura e Democrazia. Lo spazio da progettare sarà solo il suo, gli sarà cucito addosso come un abito, oltre quella soglia ci sarà solo la sua casa.
Se io architetto sarò capace di infondergli questa sicurezza nessuno potrà più confondergli le idee.
Il lavoro è lento, ma io tengo in mano il volante, perché conosco la strada.
So che devo avere pazienza, so che ho ragione perché ho il senso delle proporzioni, sono un artista, sono un poeta.
Spesso ho dibattiti accesi, alle volte devo cedere, ma se guardo all’interezza del lavoro e lo paragono ad una pagnotta, ho ceduto solo di una briciola, che faccio percepire al cliente come se fosse un masso.
Ricordo di un ministro di Ljubljana che mi aveva contattato per una villa.
Si era innamorato della casa progettata da un architetto tedesco – nulla di che, anzi, una casa fuori luogo e priva di grazia.
Abbiamo iniziato a parlare e ho fatto la mia proposta in sintonia con il luogo. Abbiamo parlato ancora, ho fatto la mia seconda proposta, e poi la terza.
Poi mi sono ritirato.
Il ministro che voleva la casa si è rivolto ad un mio collega di facoltà più anziano e noto, sicuro di vedere realizzato il suo disegno. Ha chiesto un appuntamento, ha spiegato cosa volesse, ha raccontato di avere avuto incontri con l’Arch. Princic, ma che questi non era stato in grado di soddisfarlo. Il mio collega anziano, che sembra un signore inglese, alto, magro, elegante, in tono pacato e semplice gli ha risposto: «Se Princic non è riuscito, dubito che riesca qualcun altro». Sono passati 10 anni, su quel terreno pascolano le mucche. Ancora oggi mi spiace di non essere riuscito a scalfire la sua arroganza, l’arroganza politica e incompetente che è certa di avere ragione e che ci guida. Ho fallito.
I.E. Un fragoroso applauso da parte dell’intero uditorio ha sottolineato, durante il dibattito seguito ai lavori del seminario di Messina, la Sua provocazione riferita al concorso pubblico di architettura: «Venga richiesto agli studi di architettura di tornare a produrre chiarissimi disegni in bianco e nero, spendendo risorse assai più utili nel dispiegamento delle analisi del contesto e per il conseguimento di quelle riflessioni interpretative misurate sulla complessità del preesistente, piuttosto che per assoldare giovani maghi del computer in grado di realizzare render spettacolari», questo il senso delle Sue parole. Lei ritiene che tutto ciò sia sufficiente – posto che necessario – a garantire dei risultati di maggiore qualità nel settore controverso delle opere pubbliche?
A.P.Togliere lo spettacolo quasi pirotecnico del render che, tra nuvolette colorate e vapori vari, falsifica l’immagine finale del progetto architettonico, sarebbe già un passo importante verso una maggiore chiarezza. Avere davanti solo un disegno in bianco e nero e un modello bianco che si inserisce nel modello urbano della città, sarebbe un ulteriore passo: “tengo in mano una parte della città, la giro come voglio, la guardo dall’alto, dal basso. Solo la luce mi dà la giusta proporzione, integrazione, profondità, plasticità. Io ed il plastico, senza altri”.
Non da meno è la commissione giudicatrice, oggi molto spesso di bassissimo profilo. Giudicare è un lavoro molto faticoso, estenuante, perché dopo poco devi fermarti, resettare il cervello, ripartire.
Quando ero in giuria con Boris Podrecca a Ljubljana per il Teatro dell’Opera abbiamo lavorato di più del tempo pagato, perché doveva vincere il migliore.
I progetti sono stati selezionati, divisi in categorie simili, giudicati, scelti, verificati di nuovo. Se il concorso diventasse il metodo per gli incarichi, se i giudici facessero emergere il migliore, se il migliore fosse realizzato, potremmo dire di avere un gruppo di buoni architetti.
E gli altri? In un’intervista, Gino Valle mi disse: «Ogni architetto tiene famiglia». Se l’architetto fosse così onesto da dire: “non sono il migliore”, cosa difficilissima tra noi uomini d’arte – tutti dei Michelangelo –, potrebbe lavorare presso lo studio di un bravo architetto, e contribuire alla realizzazione di progetti importanti, piuttosto che fare accatastamenti o ristrutturare il bagno del vicino per sopravvivere. In questo modo, pochi con il contributo di molti porterebbero avanti l’architettura italiana, creando l’architettura dal di dentro, dallo spazio. Bandendo l’architettura di facciata.
Ma, … e questo è un grosso ma, per realizzare questa “ARCADIA” dobbiamo essere pagati il giusto. L’euro serva per avere collaboratori, per fare concorsi, per viaggiare, per crescere e… per “tenere famiglia”.
I.E. Secondo alcuni punti di vista, anche autorevoli, il Manifesto di Caserta favorirebbe una sorta di ripiegamento dell’architettura al presente e al passato, riservando poco spazio agli slanci del progresso, alla cultura dell’Utopia. Modificherebbe, per questo, la struttura concettuale del Manifesto? Vi aggiungerebbe qualche altro punto?
A.P. Il manifesto è finalmente un testo vero dove noi architetti ci riconosciamo ed identifichiamo.
Se fare il “cane da tartufi” vuol dire rinnegare il futuro, rinnegare lo slancio fantastico, proprio della nostra professione, allora mi sembra che non abbiamo capito la profondità del messaggio. Il Manifesto non distrugge la professione, il manifesto riscrive i punti della professione, ovvero, getta le basi di una nuova professionalità.
Spesso mi chiedo: dove sta la professionalità, la competenza, la saggezza, la psicologia, la sensibilità dell’architetto?
L’architetto è un visionario e deve costruire in continuità con la storia, senza dimenticare che l’unico suo vero committente è l’uomo e le generazioni a venire.
L’architetto è un poeta, un artista, un cane da tartufi. Perché nella natura trova le risposte a tutte le sue domande.
Nota
1 Si tratta dell’evento tenutosi a Messina nell’ambito della programmazione delle attività seminariali dell’Ordine degli Architetti volte all’acquisizione dei crediti formativi, dedicato alla Presentazione del Manifesto redatto per iniziativa dell’Ordine degli Architetti di Caserta: L’Architettura in dieci punti. Riflessioni. Di tale manifesto, l’Arch. Prof. Alessio Princic è autore del punto: La Preesistenza.
*Alessio Princic nasce a Udine il 9 marzo del 1958, si laurea nel 1982 presso la Facoltà di Architettura di Ljubljana, con la tesi “Tipologija in identiteta Slapnicka” (Tipologia e identità del paese di Slapnicco), premiata con il premio “Prešeren per studenti”. Dal 1983 al 1992 collabora con gli architetti Federico Marconi e Pier Guido Fagnoni a Firenze, conseguendo in questo periodo anche la laurea a Venezia.
Nel 1992 diventa assistente presso la Facoltà di Architettura di Ljubljana. Nel 2000 completa il Magisterio a Ljubljana (dottorato di post laurea) e nel 2005 ottiene il titolo di “docente” presso la Facoltà di Architettura dell’università di Ljubljana. Dall’ottobre 2008 è docente di Composizione Architettonica presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Maribor.
Divenuto professore associato nel 2010, tiene – da allora – la cattedra di «Studio 1» (secondo anno) e «Smart» (ultimo anno)presso la Facoltà di Architettura di Maribor.
Nel 1990 apre lo studio di architettura a Udine.Partecipa a diversi Laboratori di Progettazione nazionali ed internazionali, tiene conferenze nelle università di Milano, Trento, Ljubljana, Trieste, Venezia.
Dal 1992 i suoi progetti sono esposti in mostre collettive (Pirano, Celovec, Udine, Ljubljana, Trento, Eisenstadt, Treviso, Milano, San Vito al Tagliamento, Oderzo, Ferrara, Pescara, Berlino, Madrid, Praga, ecc.) e personali (Ljubljana e Vrhnika).
Nel 1993 è selezionato tra i 40 giovani architetti italiani under 40, nel 1995 come uno dei dieci architetti del FVG chiamati a rappresentare la regione Veneto nel contesto Alpe Adria. Ottiene numerosi premi e riconoscimenti, tra cui: il premio nazionale Zanfagnini a Ferrara (1998), il premio Oderzo (2000),il premio nazionale Plečnick(1998, 2009, 2012) elo Zlati svinčnik(2007) in Slovenia,l’European Steel Design Award in Lussemburgo (2007),il premio internazionale Metra(2010).Le sue opere sono state pubblicate su alcune delle più importanti riviste specialistiche in Italia e all’estero;alcuni sono stati anche inseriti in libri tematici. Nel 2006, Idea Book pubblica la monografia “Alessio Princic architetto”.
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