di Franco Spaticchia

 

Il manifesto di Caserta: 10 punti per ripartire con gli architetti di nuovo protagonisti nel governo della buona architettura e della città: “smart”… ma a “misura d’uomo”. Da Udine a Messina, se lo vogliono, in 53 mila, per ridisegnare: ruolo, funzioni, competenze, identità’… e idealità’.

manifesto

In una società che sembra aver smarrito l’idea del bello come ritornare a gustare l’orgoglio di essere architetti?…

 

“Un grido sulla Pinta: — Terra! Terra! 
Un tramestio, un clamore sulla Pinta: — Terra! Terra! 
Tutti ora facevano coro a quel Rodrigo di Triana che

aveva primo levato il grido. E il rombo di un colpo di

cannone si propagò dalla Pinta. 
E l’annunzio scoppiò sulle altre navi : — Terra! Terra! ” (1)

Era il 12 ottobre 1492, Cristoforo Colombo scopriva un nuovo continente. Per gli storici, in quel giorno, aveva inizio l’ERA MODERNA. Quegli intrepidi navigatori avevano dato vita, inconsapevolmente, alla prima… “globalizzazione”. Due Mondi si avviavano ad essere interdipendenti l’uno dall’altro. Economia, cultura, tradizioni ma soprattutto bisogni. Bisogno di nuovi materiali, di nuovi mercati, di nuovi mezzi di produzione e di tanti nuovi prodotti, più o meno utili e necessari. Gli effetti? Più scambio di merci, più economia, più ricchezza, più bisogno di città. L’architetto parlava il linguaggio rinascimentale ed elaborava studi sulla “città ideale”.

Nel XVIII e nel XIX secolo, il livello di crescita e di sviluppo unito alla ricerca scientifica aveva favorito la scoperta di nuovi mezzi di produzione, di nuovi materiali e, con la nascita delle fabbriche, la società si era trasformata, i bisogni si erano modificati e le città si aprivano ai territori. Era l’epoca della prima e della seconda rivoluzione industriale.

Nel corso di quei mutamenti epocali, fra sviluppo industriale ed espansionismo coloniale, gli architetti sono stati considerati importanti per ricucire gli squilibri prodotti, ad esempio, dall’urbanesimo (spopolamento delle campagne e sovraffollamento nelle città), ma anche per dare un volto nuovo e di rappresentanza alle… “ville lumière” europee (che intanto si ammodernavano e si dotavano di una forza attrattiva nuova con ampie strade, metropolitane, teatri, musei, ristoranti, casinò, sale da ballo, caffè con ampie pertinenze esterne, illuminati anche di notte con innovativi lampioni a gas…) e per fornire un’idea nuova di città, sia sul piano della pianificazione che della questione abitativa, lasciando spazio anche alle utopie. Gli architetti erano ancora protagonisti, anche se il loro linguaggio era divenuto eclettico.

Ma la produzione dell’acciaio, delle ghise e del vetro in lastre di grande formato, che consente di avvalersi anche di materiale prefabbricato e prodotto in serie, e di realizzare opere architettoniche di grandi dimensioni che potevano essere montate e smontate in pochissimo tempo, cominciò a mettere in crisi la figura dell’architetto. Il Crystal Palace, ad esempio, fu eretto a Londra nel 1851 per ospitare la prima Esposizione Universale e, installato a Hyde Park, in quattro mesi, fu poi smontato e ricostruito l’anno successivo in un’altra zona della città, a Sydenham Hill. Si trattava di uno degli esempi più celebri di “Architettura del ferro” progettato da un costruttore di serre, Joseph Paxton.

crystal-palace

Per la prima volta nella storia, la forma dell’architettura non procedeva dall’idea, dalle ragioni estetiche, filosofiche e da analisi socio-antropologiche ma soltanto da fattori tecnologici e dati scientifici; da concetti di modularità, ripetitività, rapidità costruttiva. La forma dipendeva dalprodotto”.

Fu in quel contesto che nacque la figura professionale dell’ingegnere, più adatto nel nuovo ambito progettuale perché più competente nel campo della matematica, della fisica e dell’appena nata scienza delle costruzioni.

Fu allora, per la prima volta, che la figura dell’architetto rischiò di soccombere di fronte alla nascita di quella nuova figura tecnico-professionale.

Ma il bisogno di bellezza e di sincronismo fra “prodotto” e anima, fra uomo e benessere, fra struttura e sovrastruttura, consentì all’architetto di riemergere e di diventare nuovamente protagonista.

Nel rilanciare il proprio ruolo, l’architetto di fine ottocento, lo fece estendendo la sua competenza oltre che alla progettazione architettonica, anche al restauro, al design, all’urbanistica, in chiave moderna, unificando arti figurative, architettura ed arti applicate, secondo quanto sosteneva William Morris, padre dell’Art Nouveau, che nel 1881 diede dell’architettura questa definizione: “Il mio concetto di architettura abbraccia l’intero ambiente della vita umana; non possiamo sottrarci all’architettura, finché facciamo parte della civiltà, poiché essa rappresenta l’insieme delle modifiche e delle alterazioni operate sulla superficie terrestre, in vista delle necessità umane, eccettuato il puro deserto.” Pensiero rilanciato più tardi, in pieno Movimento Moderno, da Walter Gropius, con l’espressione: “dal cucchiaio alla città”, nel definire il campo di azione dell’architetto.

Fu proprio il Movimento Moderno che, pur essendo collocato storicamente tra le due guerre mondiali, in un modo o nell’altro, ha caratterizzato e influenzato tutta l’architettura del novecento. Grandi figure di architetti come: Le Corbusier, lo stesso Walter GropiusFrank Lloyd Wright, Alvar Aalto e Mies van der Rohe, rilanciarono l’antica e gloriosa figura dell’architetto attraverso il rinnovamento dei caratteri, della progettazione e dei principi dell’urbanistica, dell’architettura  e del design improntati a criteri di razionalità e funzionalità. “La Forma segue la Funzione”…e non il “prodotto”. Guarda ai bisogni dell’uomo moderno integrale e non solo alle qualità tecniche e morfologiche dello specifico manufatto.

Il dopo Movimento Moderno è l’oggi della storia; come in ogni periodo di transizione che segna il passaggio dalle grandi rivoluzioni caratterizzate dal “sogno”, dalla sperimentazione e dalla produzione intensa delle opere, alla ricerca di nuovi orientamenti stilistici, per l’architettura vi è un periodo, così detto: “di mezzo”, un’età di crisi, caratterizzata come sempre: o dalla sterile imitazione, o dalla esacerbata contrapposizione o, peggio ancora, dalla localistica improvvisazione. Storicamente i modi di concepire l’architettura, in questi periodi, sono stati generalmente tre: alla “maniera” (manierismo) di ciò che è stato grande e geniale; il ritorno al passato (l’eclettismo, citazionismo, revival); l’anarchia più o meno utopica (per il nostro tempo futurologica), dove ritorna protagonista la tecnologia, la fisica-tecnica e la sperimentazione di nuovi materiali; la così detta: “Tecno-architettura”.

Noi ci troviamo in questa congiuntura. E’ finita un’era splendida di respiro internazionale, un periodo aureo di sperimentazione e di realizzazione e, al Movimento Moderno, che dal 1936, negli USA, aveva già assunto i connotati di International Style, dopo i molteplici tentativi di esplorare nuovi orizzonti e nuovi continenti sul piano della ricerca architettonica, dagli anni ’70 del novecento, vi si è contrapposto il Postmoderno. Un movimento molto controverso e molto discusso. Come scrisse l’artista pop inglese Peter Blake nel 1977, si sarebbe trattato, del passaggio da: “La Forma segua la Funzione” (“form follows function” attribuita a Louis Sullivan) a “La Forma segue il fiasco“. Secondo i critici più legati alle esperienze del Movimento Moderno, il Postmoderno si sarebbe caratterizzato come una moderna forma di manierismo e di neoeclettismo; un recupero ironico e irriverente di forme del passato, di citazioni eclettiche e fantasiose che, sulla scia dell’esperienza della Pop-Art, ha dissacrato la memoria attraverso la contaminazione della forma, eliminando ogni distinzione tra prodotto elitario, pregno di un alto valore semantico e onirico e prodotto popolare, estraniato dal contesto, frutto del circuito massmediale teso a stupire, a coinvolgere emotivamente, a massificare. Una attenzione eccessiva rivolta al singolo oggetto, prodotto, manufatto. Paolo Portoghesi, uno dei più importanti esponenti italiani del Postmoderno, in un suo saggio, così definì la contrapposizione con il Movimento Moderno: ”L’architettura postmoderna propone la fine del proibizionismo, l’opposizione al funzionalismo, la riconsiderazione dell’architettura quale processo estetico, non esclusivamente utilitario; il ritorno all’ornamento, l’affermarsi di un diffuso edonismo”.

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Come dire, forse anche in maniera eccessivamente semplificata: con il PostmodernoLa Forma diviene ostentazione”: configurazione a priori del “prodotto”, “immagine pubblicitaria”, strumento di “comunicazione metropolitana”, viene esaltata la concezione del mondo come immagine, viene alimentato il bisogno di effimero.

Con gli anni ’90 del novecento, infine, giungiamo ai nostri giorni, con l’architettura così detta: “di fine millennio, fra pluralismo e disarmonie”.

L’architettura, che va a cavallo degli ultimi decenni del secondo millennio e del primo decennio del terzo millennio, infatti, è caratterizzata da un pluralismo di tendenze e di orientamenti dove non sono più gli architetti il punto di riferimento, ma le loro singole opere, frutto di ogni possibile ricerca espressiva a carattere individuale, spesso contraddittoria, attraverso l’esplorazione di forme e metodi disinvolti in conflitto fra di loro. Si può parlare benissimo di “babele lessicale”, di “nevrosi narrativa”, di antitesi senza tesi, di forma come presupposto, come strumento di alienazione da una realtà in crisi che ha rinunciato ai valori, agli ideali, alla gioia condivisa, alla visione cosmica e universale dell’essere umano.

visionarium

Ma siamo anche nell’era della New Media Art (Arte dei nuovi media), che orienta la speranza e l’entusiasmo dei giovani architetti, designer e artisti, verso la conquista di nuovi orizzonti; un nuovo contesto espressivo, di ricerca e di sperimentazione dove sono confluite le esperienze artistiche della rivoluzione digitale degli anni ’90: Arte multimediale, Arte interattiva, Arte digitale, Computer Art. Un’arte che abbraccia tutte le esperienze artistiche basate sui più innovativi mezzi di produzione a tecnologia avanzata e di comunicazione in rete a livello planetario. Epoca ipertecnologica degli scanner e del rendering fotorealistico.

In questa epoca di Internet of Things, (internet delle cose) la digital innovation: “Technology for All”, “Smart Cities, gaming, social innovation”, propone un’idea di città smart, fondata sulla diffusione delle tecnologie IT, con la quale sembra aver posto in discussione la centralità dell’agire umano negli ambienti urbani cominciando a far emergere, al di fuori di ogni aspetto formale, il problema reale della ridistribuzione delle funzioni nella città del XXI secolo e della necessità di promuovere in maniera diffusa il benessere, come indispensabile e organico «rapporto tra il genere umano e il digitale», fra architettura e natura, fra ambiente confinato e territorio senza confini.

La Tecnico-city, dunque, basata sulla centralità della smart city nel governo delle cose, induce l’architetto-sociologo ad un ripensamento delle funzioni rispetto alla città tradizionale, fornendone un’idea rinnovata per evitare che, come sostiene Michele Vianello (Smart Communities Strategist), nel suo articolo: “Il declino dell’idea di smart city. Ora, offriamo una diversa prospettiva”, Nomadworker, 18 maggio 2015: “la città rischia di ridursi ad essere una quinta teatrale nei processi di innovazione”, individuando proprio in ciò, “la sfida che ci attenderà sempre di più nei prossimi anni”.

In un intervista alla rivista Modulo.net, l’arch. Fabio Conato, ha dichiarato: “L’attenzione verso la salvaguardia dell’ambiente, l’ecologia e la bioclimatica, ha trasformato gli architetti in registi di un processo multidisciplinare, la cui efficacia si è via via accresciuta anche grazie all’evoluzione informatica”… “Successivamente all’affermazione dell’hi-tech, l’accresciuta sensibilità verso il tema del risparmio energetico e la messa a punto delle prime normative finalizzate a questo, hanno costretto il settore ad interrogarsi su quali tecnologie erano in grado di sopravvivere e quali erano destinate a soccombere. In questa prima fase, durata per tutti gli anni ottanta, è stata soprattutto l’industria a governare l’innovazione, trasferendo nel settore edilizio tecniche e materiali sino ad ora utilizzati in settori avanzati, quali ad esempio quello aerospaziale. I primi anni novanta sono stati segnati da un moltiplicarsi di proposte di facciate continue sempre più performanti e facciate ventilate di tutti i materiali, che sono giunte sui tavoli dei progettisti accompagnate da alcuni interventi significativi di risalto internazionale utilizzati come testimonial. Molti progettisti si sono confrontati con questo fiume in piena, utilizzando e sperimentando i sistemi proposti dall’industria.”… “La facciata del Terzo Millennio – prosegue Conato – è leggera, dinamica ed alterna l’opacità alla trasparenza, l’opalescenza al traslucido, prefigurando in alcuni casi la propria propensione alla multimedialità. Il paradigma è rappresentato dai principi di bioclimatica, vera o presunta. Diversi architetti contemporanei hanno fornito una lettura individuale di tali principi, influenzando in maniera evidente l’intera attuale generazione di progettisti. Le trame tessute in acciaio di Dominique Perrault, le gelosie Hi-Tech di Jean Nouvel, le tensotende di Michael Hopkins, i frangisole in cotto di Renzo Piano, le griglie in legno di Baumslager & Eberle, le doppie pelli multimediali di Massimiliano Fuksas, per citare solo alcuni esempi, sono divenute icone del nuovo modo di concepire l’involucro”.

renzo piano banca lodi

In questo contesto, con questo scenario, l’architetto è entrato nel XXI secolo, con la necessità di doversi impegnare sempre di più e sempre più diffusamente, nel cercare di saper cogliere, interpretare e trovare, risposte adeguate al passaggio dal sistema ai sistemi, dallo spazio percepito all’iperspazio delle reti informatiche, dalla tradizione all’innovazione; dall’estetica alla funzionalità.

Sul fronte nazionale, poi, la necessità diffusa della riduzione del consumo del territorio, se da un lato castra le potenzialità del tecnico-professionista, dall’altro, però, gli offre l’opportunità di esprimere al massimo le proprie competenze, nell’esercizio della sua peculiare capacità di dare al restauro non più un valore “mummificativo”, ma rigenerativo, nella direzione di un reinserimento vitale dell’opera architettonica e del suo contesto nel circuito dei beni architettonici ed urbanistici rivitalizzati, tesi alla valorizzazione del paesaggio e orientati ad aumentare la qualità della vita dei cittadini che ne usufruiscono anche ai fini della loro promozione turistica. Una città che valorizza la memoria ma la cui evoluzione è fortemente dipendente dall’innovazione e non si scandalizza per la sua … commercializzazione.

E.N. Rogers, a proposito del problema di come costruire nelle preesistenze ambientali e come superare i pregiudizi formali che fanno ritenere che il nuovo e il vecchio si oppongano invece di rappresentare la dialettica continuità del processo storico, fra l’altro, scrive: “Pensiamo, da un lato, a quanto si è verificato in alcune realtà economicamente emergenti, la Cina innanzitutto ma anche l’India o parti del Sud America, dove le megalopoli contemporanee hanno consumato e consumano il territorio in maniera indifferenziata, quanto a forma e funzione, e indifferente ai valori identitari locali e, dall’altro, a quanto avviene, nella vecchia Europa ad esempio, dove i centri storici vengono imbalsamati da una visione spesso acritica della conservazione che in più produce il paradosso del lasciar spazio solo a quelle architetture che Gregotti ha definito immagini di design ingrandite che certo non sono più definibili monumenti in quanto non rappresentano una comunità della quale riassumono i valori civili ma soltanto l’architetto e, spesso, valori di natura prevalentemente economica.” (2)

Si parla sempre più di “asincronismo” crescente tra “l’uomo e il mondo dei suoi prodotti”: fra anima e oggetto; tra cultura e prodotto. Stiamo vivendo a pieno: la terza rivoluzione industriale, quella elettronica, informatica, cibernetica, interneuta, ma anche dell’economia e della finanza unificata a livello globale.

Oggi, come nel XIX secolo, la tendenza generale da parte di legislatori, istituzioni pubbliche e private, liberi pensatori e utenti finali è quella di rimettere in discussione il ruolo dell’architetto poiché, da qualche decennio, il controllo delle fasi di elaborazione del progetto avviene direttamente attraverso il computer e al tecnico progettista, come abbiamo visto, gli è chiesta soltanto la capacità di acquisire e di sapere gestire nuove competenze High-Tech (ad Alta Tecnologia). Come già avvenne nel XIX secolo, nel periodo della così detta: Architettura del ferro, chiunque può progettare, poiché la forma espressiva sarà sempre più dettata dalle stesse tecnologie costruttive e funzionali e dai materiali innovativi impiegati. Stiamo vivendo un ritorno all’estetica tecnologica, sia nell’idea di architettura, che nella visione futura degli agglomerati urbani. Come dicevamo, la Forma segue la funzionalità

Unaproiezione futurologica in tal senso, legata alla rinnovata fiducia nella scienza e nella tecnologia, ci viene fornita dalla ricerca condotta da ormai oltre 75 anni in Florida dall’equipe del Venus Project dell’ingegnere Jacque Fresco. (3)

venus project

In questo contesto, di fronte a queste istanze, sorgono spontanei degli interrogativi:

qual è, dunque, la… NUOVA TERRA di missione dell’architetto?

Quale competenza è richiesta dalla futurologica cultura del fare basata sull’informatizzazione dei processi produttivi e l’industrializzazione delle attività costruttive?

Come architetti, così come è stato dimostrato nel passato, ancora oggi, saremo in grado di raccogliere queste sfide al fine di essere sempre dei protagonisti?

Personalmente, credo proprio di si!… Da sempre l’architetto ha dimostrato di saper trasformare i limiti in punti di forza, e le opportunità offerte dalle nuove tecnologie in risorsa. In ogni cambio epocale, anche se tutto cambia, una cosa rimane costante nel cuore dell’uomo: il bisogno di Bellezza!!!… E lì, è indispensabile la figura dell’architetto: l’unico che dalla notte dei tempi ha saputo mantenere elevato lo standard della buona architettura che, come l’ha definita Vitruvio, tra il 29 e il 23 a. C., nei 10 libri del trattato De architectura, deve possedere le tre famose qualità: “firmitas, utilitas e venustas”. Qualità che, nel corso dei secoli, e ancora oggi, pur cambiando le mode, gli stili, le tecniche ed i bisogni, non possono venir meno, né è possibile poter prescindere da qualcuna di esse, né qualsiasi figura professionale, al di fuori dell’architetto è in grado di farle coesistere sapendo coniugare contemporaneamente, fantasiosamente e armoniosamente: arte, scienza e tecnica.

Nel concludere questo escursus sui luoghi della memoria e del momento presente, per cercare di capire, partendo dalla metafora “del grido”… di Cristoforo Colombo e cioè, dall’inizio dell’Era Moderna, da dove veniamo, chi siamo e dove dovremmo andare, e per mantenere dunque alto, utile e indispensabile il ruolo dell’architetto anche nell’Era Contemporanea o della contemporaneità, non dobbiamo sottovalutare o guardare con sufficienza nostalgica (delle cose che furono), la realtà che stiamo vivendo ma, con intelligenza e consapevolezza, senza nessun atteggiamento rinunciatario o di delega in bianco anche ad altre categorie professionali, dobbiamo affrontare a testa alta il nostro tempo, in cui, magari, non si riterrà più utile ed indispensabile la figura dell’architetto ma, come la storia recente insegna, strada facendo, alla nuova figura di tecnico-progettista, sarà richiesta anche e soprattutto la competenza nel saper dare espressione alle esigenze di rinnovamento urbano (che oggi più che mai va orientato allo sviluppo complessivo dei territori integrandone le funzioni in reti metropolitane e consortili) oltre che la capacità di un apporto geniale di fantasia e di creatività, sia nella ricerca che nella sperimentazione di nuovi linguaggi espressivi i quali, chiaramente, non possono prescindere da un rinnovato rapporto fra l’architettura e le arti, fra principio antropico e antropologia culturale. Siamo convinti che questa è, e sarà, la NUOVA TERRA DI MISSIONE: la stessa di sempre. Qualunque sia la sfida, fin tanto che al centro del pianeta vi è l’uomo e questi è protagonista: non vi può essere città senza uomo e non vi può esserehumanitassenzavenustas.

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Si tratta chiaramente di una città che, sociologicamente, dovrà necessariamente essere pensata per la nostra società di massa. Società che risulta essere molto ibrida; informata ma senza cultura, technology-edonista; che proclama l’eticità come valore ma che risulta essere amorale nei comportamenti individuali; hitech-dipendente, chiusa ai rapporti interpersonali diretti ma desiderosa di conoscere il mondo; espropriata della facoltà di scelta democratica della classe politica, perché subalterna al potere economico-finanziario; impoverita e privata dei mezzi di sussistenza, ma ricca degli strumenti di interazione planetaria.

Una città globale per una società globale; senza confini geopolitici: multietnica, multireligiosa e multiculturale. Il luogo dei luoghi che, per non giungere al punto limite dell’autodistruzione, dovrà obbligatoriamente, senza alcun dubbio, sviluppare la capacità di dialogare, di integrare, di risolvere i conflitti, di eliminare le sperequazioni e gli sprechi, di promuovere, contro gli egoismi nazionali, il bene dell’intera umanità.

E’ in questa società, in questa città, che vive ed abita anche l’architetto contemporaneo. Una figura professionale che in senso socio-antropologico non vive isolato dal contesto, ma che avverte le pulsioni, le emozioni, le passioni, le distorsioni e le cose belle del mondo che lo circonda. Si tratta della figura dell’intellettuale-artista, del tecnico-filosofo: immerso nella realtà ma che ha la capacità di alimentare “sogni” e di saperli trasmettere, di precorrere i tempi, di indicare percorsi, di fornire risposte, di tendere verso le cose che uniscono piuttosto che verso le cose che dividono; che promuove l’incontro e la reciproca comprensione come presupposto ideale necessario alla cooperazione fra gli attori che devono garantire all’umanità la necessaria capacità di realizzazione del “bene comune universale”.

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Si tratta, ancora una volta, di ridisegno di nuovi ruoli e di assunzione di nuovi compiti; di saper cogliere le istanze che provengono dalla società dell’usa e getta e del consumo a tutti i costi come manifestazione della propria forma mentis. Parliamo di una società che è riuscita, addirittura, ad eliminare completamente, dal punto di vista socio-economico, un’intera classe intermedia della popolazione: la classe media, che prima non era ricca, ma nemmeno indigente, per estremizzare i rapporti fra le altre: in chi possiede molto di più del proprio fabbisogno e vive negli sprechi e in chi non gli basta più il proprio salario per vivere dignitosamente ed è costretto a sopravvivere negli stenti.

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Anche questi sono fattori che, sappiamo, devono coinvolgere necessariamente l’architetto ponendolo nelle condizioni di saper decifrare e decodificare le relazioni complesse che richiedono una nuova idea di convivenza fra gli uomini ma anche di logiche nuove nel pensare all’agglomerato urbano, allo spazio-territorio, ai luoghi dell’abitare, a tutti quei sistemi idonei ad accrescere la qualità della vita e a produrre benessere equamente diffuso; inoltre occorre anche saper pensare alla nuova qualità degli spazi di incontro reale (non virtuale) fra gli uomini, ai collegamenti e ai trasporti super veloci, efficaci ed efficienti, all’energia alternativa, al risparmio delle risorse naturali, al concetto stesso di città dell’uomo a misura dell’homo ipertecnologico.

Volendo analizzare il momento attuale, attraverso l’osservazione dei fenomeni che tutti stiamo vivendo, ci rendiamo sempre più conto, che in ultima analisi, ciò che caratterizza la globalizzazione e per la quale vengono a prodursi gli effetti descritti di universale spersonalizzazione e di disorientamento etico, è sempre e comunque la così detta: “colonizzazione”. Essa, infatti, procede da un unico indirizzo di tendenza: l’omologazione culturale dell’uomo al pensiero unico che ruota attorno all’oggetto di consumo e al bisogno indotto di possederlo. Omologazione e massificazione, generata, come sempre, dalle classi dominanti che detengono il controllo pressoché monopolista del sistema politico, economico-finanziario, tecnologico, produttivo, formativo e comunicativo.

Anche noi, che siamo immersi in questo sistema, corriamo il rischio di essere manipolati ed indotti a divenire massa indistinta, caratterizzata uniformemente dall’essere “animalia indigentia”: che partorisce bisogni più di quanti ne riesce a soddisfare; che ha accresciuto nell’uomo l’ingordigia, trasformandolo in un essere vorace che divora tutto: territorio, ambiente, paesaggio, cultura, tradizione, bene comune, valori identitari, sentimenti e persino la “Bellezza”; generando, per contro, altri tipi di bisogni: il vuoto come “mancanza di mancanza” e il “nulla” come culto alla religione dell’effimero, dell’attimo fuggente senza passato e senza futuro.

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L’architetto, immerso in questo contesto, non è esente da questi effetti e, per reagire e cercare di mantenere vive: dignità, identità, memoria e ruolo, se non rientra nel gotha degli archleader che vivono da protagonisti incontaminati questo scenario, deve obbligatoriamente compiere delle scelte: o si dissocia, anche attraverso l’adozione di strategie di consociativismo, di risposta collettiva attraverso il richiamo all’unità; o è destinato alla riconversione in un generico “tutto fare” e/o “disbriga pratiche” oppure, addirittura, come terza ipotesi corre il rischio reale del totale annichilimento.

Siamo alle soglie della povertà… Disoccupazione giovanile quasi al 29%, redditi medi non oltre i 17.000 euro”, ha affermato il presidente di tutti gli architetti italiani Leopoldo Freyrie alla presidenza del Consiglio nazionale dell’ordine, nel novembre  2014. Ed ha concluso: ”In questo momento di crisi siamo pronti a organizzarci in reti professionali e interprofessionali sul territorio nazionale e nel mondo e a cambiare anche profondamente i nostri studi professionali per integrare conoscenze e competenze.”

Eccola la realtà, e noi siamo diretti testimoni di questo presente. E’ inutile nascondercelo. Come è emerso anche lo scorso 15 gennaio, a Caserta, in occasione della presentazione de “Il Manifesto sull’Architettura”, su iniziativa dell’Ordine provinciale degli Architetti ppc, che si configura come una sorta di “decalogo capace di fungere da stimolo verso un’architettura di qualità,  meno auto-celebrativa e più attenta alle esigenze di una società in costante evoluzione”, ma anche, in base a quanto è stato sopra ribadito, come “risposta all’esigenza di ricreare un confronto sulle principali questioni che interessano la professione, in relazione al territorio nazionale e locale”. Nel documento, pubblicato su Mète (dicembre 2014), infatti, fra l’altro, vi si legge: “La disgregazione dell’identità professionale dell’architetto ha rappresentato l’incipit per una riflessione accurata sul ruolo sociale, culturale ed economico del fare architettura e delle conseguenti responsabilità etiche, morali e territoriali… Il Manifesto è oggi una necessità, per l’analisi del presente ed un punto di partenza per le azioni prossime, che registra le potenzialità e le problematiche del nostro tempo e della nostra professione.

Un Manifesto per gli architetti, ma soprattutto per la cittadinanza e la società di cui l’architetto fa parte, quale interprete essenziale per guidare i cambiamenti e l’accelerazione culturale del nostro tempo.”

Il progetto “Manifesto” – vi si legge ancora – è nato dalla necessità di innescare un fertile dibattito culturale, nell’ottica del confronto e della condivisione delle esperienze dirette e del pensiero che sottende l’agire dell’architetto, patrimonio inestimabile per il dialogo e la crescita di una comunità di professionisti impegnati attivamente sul territorio. Un territorio martoriato ed una professione svilita dal becero professionismo provinciale e da meccanismi di insano marketing urbano e politico, che ha bisogno di ripensare se stessa per potersi proiettare in modo nuovo in un presente-futuro”.

Si tratta di una iniziativa lodevole, urgente e necessaria che tende a… togliere il velo ( fra l’altro già scoperto impietosamente dal rapporto 2014, sullo stato della professione promossa dal CNAPPC, in collaborazione con il Cresme) e a sgomberare il campo da ogni compromesso basato sull’ipocrisia e sulla chiusura nell’atteggiamento di egoistica difesa dei pochissimi privilegi acquisiti soltanto da parte di alcuni architetti all’insegna del generale atteggiamento del tipo: si salvi chi può!…

Ad approfondire i 10 punti del Manifesto, l’Ordine provinciale di Caserta ha chiamato a convegno nomi illustri del panorama dell’architettura; uno per ogni punto: Franco Purini (l’Architetto), Massimo Pica Ciamarra (il Progetto), Camillo Botticini (l’Etica), Vittorio Gregotti (l’Estetica), Alessio Princic (la Preesistenza), Andreas Kipar (il Paesaggio), Luca Scacchetti (la Città), Mario Cucinella (la Sostenibilità), Riccardo Dalisi (la Multiculturalità), Luca Molinari (la Contemporaneità).

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Tutti quanti, temi che ci interpellano e che riconducono la centralità del dibattito sul ruolo dell’ARCHITETTO DEL TERZO MILLENNIO e sulle sfide che esso, come abbiamo detto, deve essere in condizione di sapere affrontare e vincere.

Ma per vincere bisogna ridare speranza e fiducia alla categoria, occorre avviare la ricerca di… “NUOVI TERRITORI… ricchi ed inesplorati.”

Ecco, perché, riteniamo, siano apparsi all’orizzonte della storia quelli che noi consideriamo: i nuovi navigatori del XXI secolo. Riprendendo la metafora iniziale (che, se lo vogliamo,  può aiutarci a fornirci il senso e la misura della sfida epocale che dobbiamo affrontare), il nuovo Cristoforo Colombo, oggi, potrebbe essere rappresentato dal presidente dell’Ordine degli architetti di Caserta, l’arch. Domenico De Cristofaro che, insieme alla Commissione cultura del suo Ordine provinciale, hanno avuto il merito di lanciare un grosso sasso in uno stagno che rischiava di rimanere sempre più prosciugato, conducendo, viceversa, in mare aperto, pronta ad affrontare con impeto ed assalto gli oceani, la loro caravella: il Manifesto, sulla quale, come già detto, già vi sono saliti a bordo illustri maestri dell’architettura contemporanea.

A sostenerlo… “altre due caravelle” partite, per così dire: ad aprile dal “porto” dell’Ordine Provinciale di Brescia e l’altra, lo scorso luglio, dal porto di… Messina, sotto la guida di un altro intrepido e lungimirante navigatore, il presidente dell’Ordine provinciale, l’arch. Giovanni Lazzari, che ha rilanciato l’iniziativa con un convegno tenutosi al PalAntonello di Messina.

L’augurio è quello che altri ordini provinciali (105 in tutta Italia), fino a giungere al Consiglio Nazionale dell’Ordine, prendano ufficialmente posizione con questa metodologia in progress and training e varino in mare aperto anche le altre loro caravelle.

Certo, ci vuole coraggio e volontà di uscire allo scoperto e di abbandonare, come dicevamo, localistici privilegi per affrontare, TUTTI INSIEME, l’oceano delle difficoltà, il mare della crisi, le sfide della concorrenza, le tempeste della spersonalizzazione e i rischi dell’ignoranza che predilige il profitto sulla “Bellezza”. E’ necessario comprendere che il momento per agire insieme, tutti uniti, come non avveniva più dal 1959, allorquando si tenne l’undicesimo ed ultimo CIAM (Congresso Internazionali di Architettura Moderna) nel corso dei quali veniva promossa e diffusa una visione dell’architettura e dell’urbanistica funzionale moderna, in maniera unanimemente condivisa, è giunto ed è il presente!!!…

Sicuramente i tempi sono diversi e anche la cultura e lo scenario socio-economico è cambiato.

Su 153 mila architetti in Italia (alla fine del 2013 risultavano iscritti agli albi provinciali, secondo i dati forniti dagli ordini, 152.384 architetti; 149.439 gli iscritti nella Sezione A e 2.945 gli iscritti alla Sezione B), più della metà sono indaffarati, loro malgrado, a cercare di resistere, impegnati a sbarcare il lunario, ad arrampicarsi sugli specchi.

Ma al di là del numero di coloro che per un verso o per l’altro considereranno il Manifesto come un “luogo” di confronto ed una opportunità per farsi sentire, quello che conta sono i contenuti raccolti per adesso nei 10 punti di partenza, l’indovinata metodologia di diffusione progressiva attraverso gli ordini provinciali e la carica, la vitalità e la competenza dei promotori e dei primi firmatari del Manifesto che interpella, scuote e stimola alla partecipazione ogni architetto sensibile e responsabile.

Allo stato attuale, sappiamo benissimo che il panorama interno alla categoria appare abbastanza variegato e, pur con qualche forzatura, ma nel rispetto della dignità di ognuno e dovute eccezioni a parte, lo si potrebbe rappresentare, sommariamente, in sette sottocategorie:

la prima è quella costituita dagli ArchLeader, celebri, che riescono ad esercitare la loro professione con commesse importanti in tutto il mondo, al di là delle crisi, e tengono alto il prestigio della categoria; dopo vi sono gli ArchBurocrati che dai posti di comando degli organismi di rappresentanza istituzionale e inseriti nei quadri degli organismi governativi hanno promosso e/o favorito le insane scelte di imbrigliare la categoria in norme, obblighi, adempimenti, oneri, balzelli, chiusure e restrizioni che incidono notevolmente, in special modo sulla componente più debole della categoria, nell’esercizio della propria attività professionale; seguono gli ArchImpiegati che, per sopravvivere, fanno una doppia professione o sono inseriti negli organismi dirigenziali di enti pubblici e privati, svolgendo anche doppie mansioni e spesso diventando competitivi anche nei confronti degli stessi architetti; non mancano gli ArchTeorici che scrivono, teorizzano, sono eccellenti intellettuali ma non realizzano; così come gli ArchAccademici che sono impegnati nella ricerca, molti in età avanzata, e lontani dai laboratori industriali e dai distretti produttivi; molto più in basso vi sono gli ArchImpoveriti che pagano iscrizione all’Ordine, assicurazione obbligatoria, Cassa degli Architetti, corsi di formazione, costi di gestione, tasse e utenze varie e sopravvivono con certificazioni, perizie, catastazioni, arredo d’interni e piccoli lavoretti spesso in competizione con designer, geometri ed ingegneri. Secondo i dati dell’Agenzia delle entrate, riportati dal Consiglio nazionale, il fatturato annuo medio degli studi, nel 2012, si aggirava intorno a 38 mila euro, contro i 55 mila degli studi di ingegneria. Nel 2013 i redditi medi non hanno superato i 17.000 euro. Il 57% degli architetti ha debiti con istituti di credito, società finanziarie o fornitori (4); per ultimo ma non ultimi, vi sono gli ArchPolitici che ci rappresentano ai vari livelli politico-istituzionali e, pur essendo in pochi, cercano comunque di lottare per portare avanti, fra l’altro, anche le istanze della nostra categoria.

Una per tutte che (ce ne siamo accorti al convegno di Messina) vale per cento: l’on. arch. Serena Pellegrino, deputata alla Camera e prima firmataria della proposta di legge costituzionale per integrare l’art.1 della nostra Carta costituzionale con il riconoscimento della Bellezza quale elemento costitutivo dell’identità nazionale. Inoltre, essa rappresenta una testimone dei tentativi attraverso i quali la politica istituzionale dispone atti orientati a penalizzare gli architetti, non ultima, ad esempio, la norma inserita nel DDL Concorrenza, all’articolo 32, che di fatto, garantisce parità di trattamento fra le Società tra Professionisti e le Società di Ingegneria per cui queste ultime diventano di per sé competitive rispetto a quelle costituite da soli professionisti.

L’onorevole architetto, presente, come dicevamo, al convegno sui 10 punti del Manifesto di Caserta, tenutosi il 16 luglio u. s. a  Messina, infatti, nel suo appassionato e coinvolgente intervento ha ribadito come sia importante, così come fuori dalle sedi parlamentari, ha trovato partecipi al suo fianco le principali associazioni italiane, in rappresentanza delle istanze della cultura, delle arti, della musica, dell’ambiente, del territorio, del paesaggio: dall’Unesco a Greenpeace, da Federcultura a Legambiente, dallo stesso Consiglio nazionale degli architetti ai Conservatori d’Italia, da Kronos 1991 a Coldiretti nel fornire il loro contributo a far valere le ragioni della “Bellezza”, che si crei un movimento unitario a sostegno della sua iniziativa parlamentare affinché, lo ricordiamo: venga riconosciuto dal mondo politico, all’art.1 della Costituzione, che “l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro e riconosce la Bellezza quale elemento costitutivo dell’identità nazionale”.

 “…precisare che la Repubblica Italiana riconosce la bellezza quale elemento costitutivo dell’identità nazionale – ha detto l’on. Pellegrino –  …è certamente una delle più rivoluzionarie iniziative per ridare dignità e prospettive al popolo italiano, per salvare il territorio e l’anima dell’Italia, smembrati e ridotti a merce di scambio e bottino di conquista, per recuperare lo slancio creativo e il senso del bello che da sempre appartengono al codice genetico della nostra collettività: sono sentimenti comuni che si sviluppano attraverso le più diverse esperienze e che tuttavia oggi abbiamo verificato convergono e si sovrappongono perfettamente.”

“E’ necessaria – ha proseguito – una mobilitazione popolare su questo tema, atta a bloccare la tendenza che sta facendo declinare l’Italia in un processo di omologazione verso il basso, di sperpero di talenti e conoscenza, di devastazione dell’immensa ricchezza che questo popolo, con creatività, sapienza e connaturato istinto, ha saputo costruire.

La-libertà-che-guida-il-Popolo-Delacroix
La bellezza che guida il popolo

Sollecitazioni forti, esempio mirabile! Ma, riusciranno gli architetti d’Italia ad ascoltare questi appelli e ad alzare alto il grido e a far sentire la loro voce?…

Si approderà alla nuova terra di missione degli architetti?

Si riuscirà a gridare, finalmente: …Terra! Terra!!!…?

Si riusciranno ad affrontare le sfide e a ridefinire ruolo e identità dell’architetto nella società dell’effimero (senza memoria e senza prospettive certe per il futuro)?…

Ciò che è certo, per il momento, è che l’occasione è propizia: un portavoce autorevole e controtendenza che grida alto il bisogno di Bellezza ha già avviato la sua azione di portata storica e rivoluzionaria; il tavolo sui 10 punti del Manifesto c’è!… Cosa aspettiamo?!!!…

 

Va detto, pure, che il Manifesto nato a Caserta come incontro fra il mondo accademico e quello professionale ed istituzionale, a Messina, ha aggiunto ancora due tasselli importanti: come già detto, la voce importante a livello politico-istituzionale in seno al Parlamento italiano dell’on. arch. Serena Pellegrino e, a livello di dibattito in sala, l’incontro con il mondo dei professionisti che vivono in concreto, nel quotidiano, le difficoltà dell’essere architetti, oggi. Si è trattato di un confronto abbastanza partecipato e stimolante, diretto ad affrontare la realtà concreta, quella vissuta nei singoli territori, con la rappresentazione delle istanze ideali e culturali a cui, da sempre, è legata la professione degli architetti. Istanze che oggi più che mai vengono mortificate in considerazione delle scelte compiute a livello governativo per superare la crisi, dalle quali siamo puntualmente esclusi e ciò a causa di un atteggiamento aprioristico di diffidenza e di chiusura della politica, in generale, verso i temi della Bellezza di cui gli architetti, per loro natura, sono difensori e custodi.

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Un passo avanti rispetto al convegno di Caserta, che certamente amplia lo spazio di riflessione condensato nei 10 punti e pone il Manifesto come LUOGO DI CONFRONTO sempre più ricco e più attuale affinché, partendo da istanze condivisibili in Italia, si possa (perché no?) coltivare la speranza che venga a trasformarsi in una specie di NEO-CIAM, o per meglio dire (ma è solo una provocazione), con il linguaggio odierno: una sorta di GPICA (Global Platform Instances Contemporary Architecture). Ossia, una sorta di Piattaforma Globale, come abbiamo detto: in progress, in its renewal, delle istanze dell’architettura contemporanea per la società che vive questa contemporaneità, proiettata velocemente verso il futuro.

D’altronde:

  • se come abbiamo detto, con i CIAM veniva promossa e diffusa una visione dell’architettura e dell’urbanistica funzionale moderna;
  • se con la Carta di Atene, sono stati enunciati i mezzi per migliorare le condizioni di esistenza nella città moderna, per permettere lo svolgere armonioso delle quattro funzioni umane: abitare, lavorare, divertirsi e spostarsi,

perché IL MANIFESTO DI CASERTA non può rappresentare per il nostro tempo IL LUOGO DI INCONTRO FRA TUTTI GLI ARCHITETTI D’ITALIA, E NON SOLO?…

 

…Siamo convinti di si e, a maggior ragione, soprattutto nel momento in cui, in piena crisi di sistema, constatiamo da qualche decennio il limite dell’essere architetti e le difficoltà che si riscontrano non solo per svolgere la professione ma, cosa ben più grave, nell’aver potuto constatare il venir meno, progressivamente, del riconoscimento culturale prima, e politico-istituzionale dopo, del nostro ruolo di co-protagonisti nel processo di trasformazione dei luoghi dell’abitare, con il conseguente rischio, crescente, che, addirittura, non venga più ritenuto utile il nostro ruolo nella società del Terzo millennio.

 

Ecco perché la storia ci interpella. È proprio qui, in questo tempo, il punto di non ritorno, il luogo della scelta; è in questo scenario in cui «compare l’orizzonte della scomparsa» della figura del “creatore di bellezza” che l’architetto deve ritornare a farsi sentire; che deve andare contro corrente. A chi può far piacere, sapere che il fronte interno della categoria che, lo ricordiamo, può contare, soltanto in Italia, su circa 153 mila professionisti, sia frantumato e diviso?

immagine_testata_la bellezza

Il Manifesto contempla 10 punti ma ne basterebbe anche uno solo per scuoterci profondamente come singoli architetti: La Bellezza.

E non può più bastare che a tenere alta la fiaccola dei “creatori di bellezza” siano soltanto i protagonisti dell’architettura mondiale che per una serie di circostanze favorevoli sono chiamati dalla storia a mantenere acceso il lume della ragione e a far risplendere i luoghi del tempo come monito e come testimonianza per le future generazioni.

Protagonisti che abbiamo definito ArchLeader e che dimostrano, ad imperitura memoria, che degli architetti non si può fare a meno, almeno là dove c’è la capacità di apprezzare la loro opera di creatività e di ingegno. Come atto di gratitudine e di riconoscimento per il loro ruolo di custodi della buona architettura, fra i più noti citiamo quelli ancora viventi ed operanti in più nazioni: Renzo Piano (classe 1937), Frank Owen Gehry (1929), Norman Foster (1935) , Tadao Ando (1941), Wolf Dieter Prix (1942), Mario Botta (1943), Remment Koolhaas detto Rem (1944), Daniel Libeskind (1946), Zaha Hadid (1950), Santiago Calatrava (1951). Anche se, ad onor del vero, dobbiamo pure dire che, secondo quanto scrive Di Bernard Tschumi, nel suo libro Architettura e disgiunzione: “…la storia dell’architettura ha finito per coincidere in gran parte con l’immagine stampata e con la parola stampata (e la loro diffusione), e non con la costruzione. All’epoca in cui sto scrivendo – (1996) – personalità influenti del mondo dell’architettura quali ad esempio Daniel Libeskind, Wolf Prix, Zaha Hadid, Rem Koolhaas hanno costruito relativamente poco”. Innumerevoli articoli, più carta scritta e parole che possibilità di costruire. “Inevitabilmente, l’architettura e la sua percezione diverranno come un qualsiasi altro oggetto della realtà contemporanea. Il classicismo eclettico, il razionalismo, il neomodernismo, il decostruzionismo, il regionalismo critico, l’architettura verde… tutto ciò coesiste e finisce per provocare in noi una profonda indifferenza: Indifferenza verso la differenza”.

Vedete come ritorna ancora una volta provvidenziale IL MANIFESTO DI CASERTA? URGE che tutti, indistintamente, GLI ARCHITETTI, ritornino a parlare una sola lingua, la loro lingua comune… Quella che gli consente di intendersi fra di loro e di ottenere forza, riconoscibilità e credibilità all’esterno.

Architettura “stampata” e architettura “costruita, comunque sia, che non si smetta mai di parlarne e di farne, e che non si smetta mai di avvertirne il bisogno, perché, al contrario, l’indifferenza, l’assenza, il disconoscimento, rappresenterebbero di per sé l’inizio della fine.

La zattera della Medusa Gericoult

PER QUESTO MOTIVO, IN QUESTE PAGINE, SIAMO ANDATI OLTRE LA CRONACA DEGLI AVVENIMENTI E ABBIAMO PROPOSTO QUESTO PERCORSO NEL PASSATO, NEL PRESENTE, CON DELLE PREVISIONI PER IL FUTURO: per PARTIRE DA PUNTI FERMI, per SCRIVERE L’ANNO ZERO DELLA RIPARTENZA, per SOSTENERE CON FORZA E CON CONVINZIONE IL LUOGO DEL REINCONTRO, DEL RITORNO AL DIALOGO, AL CONFRONTO; per RIAPPROPRIARCI DEL NOSTRO RUOLO, per RISCOPRIRE LA NOSTRA IDENTITA’, DIFENDERE CON CORAGGIO ED ORGOGLIO LA NOSTRA DIGNITA’; per RICOMPRENDERE, TUTELARE E VALORIZZARE LE NOSTRE COMPETENZE.

Ecco perché è necessario sostenere e diffondere l’idea del MANIFESTO

Les_marches_de_Grande_Arche

Come già i navigatori di Colombo, intrepidi e coraggiosi, vogliamo uscire allo scoperto, COME CATEGORIA UNITA, alla ricerca di nuovi continenti (INTERLOCUTORI CHE ODANO LA NOSTRA VOCE), di nuovi territori da esplorare (CAMPI PER MANIFESTARE IL NOSTRO ESSERE, SEMPRE E COMUNQUE CULTORI DELL’ARTE DELL’ABITARE… ESPERTI CREDIBILI NEL SAPER CREARE LUOGHI DEL BENESSERE, PER RENDERE GIOIOSA LA VITA E FELICE L’ESISTENZA).

Pensiamo, comunque, che per partire da una base ideale comune e unanimemente condivisibile, occorrerebbe che venissero introdotte, alla base della rinnovata volontà di incontro, due parole d’ordine che, al di fuori di ogni significanza ideologica, potrebbero essere quelle tratte dalla rivoluzione Russa della seconda metà degli anni ottanta di Gorbaciov: perestroika e glasnost che tradotte significano: rifondazione radicale e trasparenza.

Parole che, ricondotte nell’alveo della nostra esperienza, dovrebbero intendersi come RIPARTENZA e RITORNARE AD ESSERE CIO’ CHE SIAMO.

A Messina ci siamo resi conto, in base agli interventi dei promotori, che queste parole d’ordine sono già presenti nello spirito costitutivo ed ideale del Manifesto ma ancora non hanno assunto i caratteri semantici di espliciti catalizzatori. Nel ribadirne l’importanza e la necessità, manifestiamo la nostra convinzione che assumerle esplicitamente favorirebbe la creazione di un legante ideale importantissimo ai fini della riconoscibilità che deve contraddistinguere a livello di principi unitari l’intera categoria degli architetti.

partecipanti ME1

Il compito dell’architetto, infatti, non è ad personam; non mi sono iscritto in architettura per far contenti i miei genitori, per svolgere una qualsiasi attività o per acquisire un riconoscimento sociale; credevo e credo in questa bellissima professione perché sono convinto che l’architetto abbia una missione da compiere e una funzione culturale ed estetica da svolgere a carattere storico, in quanto la sua opera è capace di attraversare la barriera generazionale, per imporsi e proporsi nel tempi che verranno come manère e monère. Una responsabilità, dunque, che va oltre lui ma che per potersi affermare come principio universalmente accettato e condiviso va vissuto INSIEME, RITORNANDO AD ESSERE UNITI, manifestando civilmente la propria capacità di DIALOGARE e di sapersi CONFRONTARE, al di fuori dei ghetti provincialoidi,con i luoghi della cultura architettonica ed urbanistica propri della civiltà mondializzata.

convegno caserta mario_ferrara
Caserta, Teatro Comunale, da sinistra: Giuseppe Albanese, Alessio Princic, Massimo Pica Ciamarra, Franco Purini, Giancarlo Pignataro, Domenico de Cristofaro, Elviro Di Meo, Umberto Panarella, Riccardo Dalisi, Luca Molinari, Camillo Botticini, Matteo Pedaso. Ph: courtesy, Mario Ferrara


CHISSA’ CHE SEGUENDO QUESTA STRADA INDICATA DAI COLLEGHI DI CASERTA NON SI POSSA PERVENIRE A SCRIVERE UNA NUOVA “CARTA DI ATENE” (testo fondatore dell’architettura e dell’urbanistica moderna), AFFINCHE’ SI POSSA AVVIARE UNA NUOVA STAGIONE DELL’ARCHITETTURA INTERNAZIONALE CON UNA GRANDE VISIONE DELL’ARCHITETTURA, DELLA PIANIFICAZIONE URBANA E DELLA PROGRAMMAZIONE TERRITORIALE CHE PONGA AL CENTRO SEMPRE E COMUNQUE L’UOMO E IL SUO BISOGNO INSOPPRIMIBILE DI BELLEZZA?!…

MA GLI ARCHITETTI SANNO ANCORA DIALOGARE?!!!…

Certo, nell’essere chiari e trasparenti, dobbiamo dirci, senza nessuna volontà critica, ma animati solo dal bisogno di ben ripartire… con il piede giusto che, in atto, nel Manifesto, a parere nostro, vi sono dei limiti da superare per ricondurlo sulla rotta maestra, capace di affrontare gli oceani e condurci, tutti insieme, finalmente, a poter gridare: Terra! Terra!!!…

I limiti riscontrati, a parere nostro, secondo quanto pubblicato sulla rivista Mète (dicembre 2014), a cura dell’Ordine degli Architetti P.P.C. della Provincia di Caserta ci sembrano essere tre:

  • il parlarsi addosso degli architetti: ad intra e non ad extra, come limite comunicativo;
  • il parlare senza il dovuto rispetto verso l’approfondimento e lo studio delle problematiche affrontate, relativamente soltanto a tre fra i 10 punti, che hanno rivelato approssimazione e semplificazione dei concetti chiave a volte in forma anche un po’ datata, come limite ermeneutico;
  • parte in punta di piedi, quasi come se non nutrisse l’ambizione di porsi e proporsi come “LUOGO” accreditato per il rilancio della categoria e per il confronto sui grandi temi dell’architettura e dell’urbanistica contemporanea anche a livello internazionale, ribadendo: quasi, come una sorta di nuova “Carta di Atene”, con la possibilità di andare anche oltre i 10 punti prefissati, come limite rivoluzionario.

In conclusione, però, si dimostra con una equazione perché IL MANIFESTO, una volta completato il ciclo di confronto ed elaborazione finale, dovrebbe essere considerato necessariamente: “PATRIMONIO DELL’UMANITA’

ARCHITETTO = CULTORE DELLA BELLEZZA

L’UNESCO TUTELA LA BELLEZZA COME PATRIMONIO DELL’UMANITA’.

GLI ARCHITETTI INDISPENSABILI PER L’UMANITA’ = GLI ARCHITETTI PATRIMONIO DELL’UMANITA’.

Per la proprietà transitiva: IL MANIFESTO =PATRIMONIO DELL’UMANITA’.

MA GLI ARCHITETTI SANNO ANCORA SORRIDERE?!!!…

  • (Da un articolo, ridotto, di ETTORE JANNI) http://www.parodos.it/archivio/cristoforo_colombo_verso_l.htm
  • Festival dell’architettura – Magazine – Ernesto Natahan Rogers e il Cuore della Città. Rogers 1997 258 – E.N. Rogers, Esperienza dell’architettura, 1958 Einaudi
  • DALLA “CITTA’ VENUSIANA” ALLA “CITTA’ ECUMENICA”… http://www.fratesole.sicily.it/Venus_Project/Venus_Project.htm
  • PROFESSIONI: ARCHITETTI, CONSIGLIO NAZIONALE “SIAMO ALLE SOGLIE DELLA POVERTÀ”. http://www.old.awn.it/AWN/Engine/RAServePG.php/P/291271AWN0300

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