di Mimmarosa Barresi

Una delle tre “partes” dell’architettura di Vitruvio, la principale, se così ci piace, è la “aedificatio” =  costruzione di edifici pubblici e privati di vario genere.

La sua trattazione occupa i libri dal primo al settimo dei dieci costituenti il De Architectura, cioè un po’ più dei due terzi dell’intera opera.

Secondo un procedere per ripartizioni, triadiche in prevalenza, comune al tempo a tutte le scienze e le arti, la “aedificatio” è innervata e regolata da una triade, appunto, forse la più nota delle vitruviane: “firmitas”, “utilitas”, “venustas”, che rendiamo agevolmente con solidità, utilità/comodità, bellezza.

Eccoci, dunque, bellezza, un termine ed una condizione insieme per individuare, designare, giudicare la bella architettura, l’architettura ideale addirittura.

Al contrario di altri concetti fondanti, che pur dominano i binomi e le triadi di appartenenza, ma non interagiscono al di fuori di essi,  la “venustas” ritorna insistentemente nella composizione di ulteriori triadi: “venustas” – “proportio” (esatti rapporti dimensionali fra le parti degli edifici) – “symmetria” (commodularità) ed ancora “venustas” – “usus” (utilizzo/comodità) – “decor” (convenienza/decoro).

Possiamo quindi affermare che “venustas” occupi un posto fondamentale nella, invero complicata, tessitura epistemologica del trattato di Marco Vitruvio Pollione.

Da dove questi prendesse ispirazione, da dove attingesse, probabilmente a piene mani, forse non potremo mai saperlo, benché con encomiabile e inusitata, per l’epoca, correttezza, egli citi le sue fonti nella Prefazione del settimo libro, dedicato ai “finimenti” degli interni delle abitazioni. L’intento, dichiarato in più luoghi, è infatti quello di offrire ai contemporanei, ed ai posteri, il prezioso échantillon di una summa del sapere architettonico greco aggiornato grazie all’apporto di contributi latini e, genericamente, italici. Non a caso, con consapevole orgoglio, Vitruvio definisce il proprio trattato “Institutiones novae” (De A., VII, Pref., 5).

Un’operazione classicistica, per così dire, ante litteram, nella quale tuttavia in contemporanea, e sempre nell’ambito dei circoli augustei (di Ottaviano Augusto), altri con, in verità, maggiore e duraturo successo si erano cimentati, animati dal desiderio/progetto di aemulari (entrare in gara) piuttosto che imitari (imitare) gli eclatanti esempi offerti dalla cultura greca.

Si pensi al noto ”Nescio quid maius nascitur Iliada” (“Non so se sia nato qualcosa di più grande dell’Iliade”), con cui Properzio (Eclog., II, 34, 61) salutava la composizione dell’Eneide di Virgilio.

Il mito della bellezza greca, il “bello e buono” insieme, spiegano l’uso, presso Vitruvio, del termine “venustas” piuttosto che “pulchritudo”, che vale ugualmente “bellezza”, ma non condivide con il primo il senso accessorio di “gioia”, “soddisfazione”, portati della bellezza medesima. Un’architettura, dunque, ontologicamente  buona perché bella e quindi capace, in forza della sua venustas, di suscitare nei suoi fruitori onesti comportamenti, una vita virtuosa etc.

E dimentichiamoci, per adesso, delle ventitré pugnalate che Gaio Giulio Cesare soffrì in quella bella architettura che sarà stata la Curia di Pompeo.

A fronte del dubbio corrente ed imperante di cosa sia, e se vi sia, per noi oggi la bella architettura, il pensiero estetico classico sbandierava la ferma convinzione che fosse la mimesi naturale, cioè la fedeltà da parte dell’artista/architetto ai paradigmi proposti dalla realtà naturale, di solito preesistente alla creazione artistica/architettonica, a realizzare il prodigio.

Senza entrare nello specifico, si ricorda che , se l’operazione mimetica era sufficientemente agevole per pittori e scultori, altrettanto non risultava/non aveva possibilità di risultare per gli architetti a causa della mancanza di un prototipo naturale che ispirasse e giustificasse, ad esempio, la forma e le proporzioni di un tempio.  Ecco, quindi, la sagace invenzione (astucieux direbbero i francesi) dell’exemplum mediato della “capanna originaria”, espressione dell’ingegno fabrile degli uomini primitivi e pertanto vicina, vicinissima ad un archetipo  naturale.

Questa capanna dei sogni, di grande fascino gnoseologico, ispirerà, fra i tanti, la pittura di Piero di Cosimo, le illustrazioni di Filarete per Sforzinda e sarà riproposta con autorità nei rigorosi precetti illuministici di Marc-Antoine Laugier relativamente all’architettura.

Ma è altra storia.

Ritornando alle fonti citate da Vitruvio nella Prefazione del settimo libro del trattato, citate, ripetiamo, con rara onestà intellettuale, essendo il plagio attitudine ‘innocentemente’ diffusa, è qui che troviamo il trait d’union con la bella architettura di Sicilia, nonché la giustificazione di quanto fino ad ora esposto.

Agli inizi del I secolo dopo Cristo (datazione condivisa per il De Architectura) la Sicilia era già un sontuoso pattern book grazie al diorama di architetture, templari e non solo, che dispiegava in ogni dove del suo territorio; ed a cui corrispondeva, prevedibilmente, una nutrita schiera di opere teoriche, o semplicemente descrittive, forse non esaustive come i trattati, ma tali da dare indicazioni sufficienti per conseguire risultati d’eccellenza nella Madre Patria greca e nelle colonie d’oltremare della Magna Grecia e di Sicilia.

Nella maggior parte dei casi Vitruvio non aveva conoscenza diretta della bella architettura greca, non avendo compiuto, fra le altre cose, alcun grand tour in Grecia, come erano già soliti fare i rampolli di nobile famiglia e gli intellettuali del suo tempo; anche se, nel caso che le sue origini siano state campane (come ipotizzato da varie parti), la Neapolis per eccellenza, Napoli, offriva nobili esempi en dur dell’arte edificatoria ellenica. In ogni caso la Sicilia risulta esclusa; eppure, cronologicamente parlando, il tempio agrigentino così detto della Concordia, agli inizi del I secolo dopo Cristo, era in piedi da cinquecentosettanta anni circa.

E’ pur vero, tuttavia, che fino alla metà del XVI secolo l’architettura greca, dorica in specie, era sostanzialmente sconosciuta.

Molto più facili da approcciare, per Vitruvio, come per Plinio in seguito, erano le ‘carte’, cioè gli scritti sugli edifici di quella che per i Romani del periodo augusteo era già antichità.

Poiché ci limiteremo, per il momento, alla bella architettura dorica isolana, templare in specie, ritornando alle fonti citate da Vitruvio, troviamo in primo luogo quello che sembra un trattato sulle proporzioni dell’ordine dorico di un tal Sileno, sconosciuto per noi come il Carneade di manzoniana memoria, ma da alcuni identificato con l’architetto Satyros menzionato poco dopo: “…Silenus de symmetriis doricorum edidit volumen” (De A., VII, Pref., 11) nello stesso contesto. Fra le monografie, cioè gli scritti dedicati a singoli edifici, la prima citazione, decisamente errata, attribuisce a Theodoros un’indagine sul tempio di Hera a Samo, dichiarato dorico, laddove, com’è noto, l’Heraion sfoggia una inconfondibile livrea ionica. Non era possibile sbagliarsi, invece, sull’ordine del Partenone, sul quale scrissero, afferma Vitruvio, Ictinos e Carpion: “…item de sede Minervae, dorice quae est Athenis in arce, Ictinus et Carpion” (De A., VII, Pref., 11).

Altre fonti, sempre citate in questo stesso cruciale luogo, riguardano i teatri, ovviamente greci, ed altri edifici sacri e profani di varia natura, compreso l’arsenale del Pireo.

Delusione! Nulla che parli della Sicilia e delle sue bellezze architettoniche.

Ma…, se dalla citazione delle fonti passiamo alla esposizione dei precetti, delle regole dell’arte, ecco che il quadro si ricompone ed i bei templi siciliani, ma anche i teatri, i ginnasi etc. risultano più che ortodossi, paradigmatici addirittura; anzi, poiché il procedimento proposto è, per così dire, à rebours, il Tempio della Concordia come il Partenone forniscono a Vitruvio la base concreta, l’esempio vivente da cui dedurre le sue prescrizioni, anche se in maniera non immediata.

Secondo questa ricostruzione del percorso poietico e gnoseologico, si parte dai templi, ma anche dai teatri, dalle agoraì etc. della Grecia classica e della Magna Grecia e di Sicilia, per passare alla organizzazione di un corpus normativo desunto dalle costruzioni e/o preesistente (gli scritti di Silenus, Ictinos etc.) alle stesse; da qui, questa volta per Vitruvio senza il conforto della visione/conoscenza diretta degli edifici, si giunge ad una rinnovata regolamentazione della materia, non a caso definita dal trattatista “Institutiones novae”.

Il Tempio della Concordia, come il Partenone, si pongono quindi come il fondamento, il paradigma di una architettura obbediente ai canoni e regolata dalle categorie epistemologiche, distribuite in triadi e binomi, di cui “venustas” è componente fondamentale.

In aggiunta, nulla ci vieta di pensare che esistesse una letteratura relativa alle architetture greche di Sicilia, sconosciuta, forse perché già perduta, agli intellettuali di Roma.

Ed è tempo ormai di dimostrare, proprio sulla base della dottrina, come e perché il così detto (da Tommaso Fazello) Tempio della Concordia fosse bello ed esemplare.

Dorico, certamente, e periptero, esastilo, picnostilo, sapientemente ‘aggiustato’ dalle correzioni ottiche, proprio come sarebbe piaciuto a Vitruvio. Perfino più normale, in senso tecnico, dello stesso Partenone quasi coevo. Chiunque ne fosse l’autore, questi aveva risolto ‘anche’ uno dei problemi che impedivano all’ordine dorico di essere impiegato con disinvoltura, cioè il così detto conflitto angolare, causato dalla presenza nel fregio di metope e triglifi, quest’ultimi da porre ‘assolutamente’ in asse con le sottostanti colonne. Il Tempio della Concordia azzera il pregiudizio che le “symmetriae” doriche fossero, secondo alcuni ferventi filoionici, “mendosae et disconvenientes”, cioè difettose e inadatte (De A., IV, III, 1), e rinforza il giudizio vitruviano, per cui “non… invenusta est species”; “non invenusta”, cioè bella.

Inoltre, il rapporto fra l’altezza delle colonne e la specie di intercolumnio, applicato canonicamente, conferisce alla fronte templare “genus”, il carattere, e “formae dignitas”,  la richiesta gravità formale.

E potremmo continuare sottolineando altri elementi ed accorgimenti che qualificano positivamente il ‘nostro’ sacro edificio (planimetria, curvatura del piano stilobatale, inclinazione della trabeazione etc.); ma volentieri ci soffermiamo piuttosto sul colore dell’architettura, da intendersi non come pitturazione di pareti e pavimenti, bensì come sovrapposizione di colori,  nel nostro caso sgargianti, alla struttura architettonica relativamente agli ordini. A lungo negato, il policromismo architettonico degli antichi, qui dei Greci, lungi dal rappresentare una sorta di decadente imbarbarimento, di blasfema deviazione dall’ideale del bianco ‘a tutti i costi’ su cui Winckelmann impostò parte delle sue fortune, costituisce un elemento in più, una sorta di valore aggiunto, e si fa partecipe della vera bellezza dei monumenti.

‘Scoperto’ già agli inizi del XIX secolo da Quatremère de Quincy nell’ambito della statuaria, questo policromismo fece fatica ad essere riconosciuto come complemento indispensabile quanto comune dell’architettura antica, nonostante le innegabili tracce di policromia esistenti su molti edifici a partire dall’Età Arcaica sia in Grecia sia in Magna Grecia e molto più in Sicilia. Ad Agrigento, in particolare, ma anche a Segesta e Selinunte Jacques-Ignace Hittorf, sostenitore del policromismo integrale dei templi siciliani, e di tutti gli altri, verificò con successo le sue ipotesi circa la presenza di una rutilante, vistosa pellicola (rossa, bianca, azzurra, gialla, dorata) che copriva, secondo regole ben precise, basi, colonne, capitelli, trabeazioni e così via.

Come il Tempio di Eracle e  di Castore e Polluce, non vi è dubbio che anche quello della Concordia partecipasse della gloria di questo variegato maquillage, che si giustificava anche dal punto di vista teorico relativamente alla origine mimetica dell’architettura: la natura è infatti policroma e questa policromia contribuisce alla sua bellezza.

Infine, una precisazione, circa la scelta del soggetto di questi brevi note, cioè dell’agrigentino Tempio della Concordia. Ebbene, la scelta è del tutto arbitraria, poiché altri analoghi monumenti avrebbero potuto dimostrare l’applicazione di venustas nelle architetture siciliane. Quello della Concordia, tuttavia, è un edificio sacro che si distingue per l’eccellente stato di conservazione che lo rende facilmente leggibile e comparabile con le prescrizioni della trattatistica.

Ed ancora, molte cose sono state omesse per convenienza, per obiettiva mancanza di competenze specifiche, per…darvi appuntamento alla prossima puntata alla  ricerca di altre epifanie architettoniche e di altra bellezza.

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Giovan Battista Cordini (Battista da Sangallo), “Tempio doricho di sei colonne al modo pincrostilo”, 1540 ca., disegno a margine e corredo dell’editio princeps sulpiciana del De Architectura di Vitruvio, in G. Morolli, M. Barresi, L’architettura di Vitruvio. Una guida illustrata, Firenze 1988, p. 109.

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Giovan Battista Piranesi, “Scenographia reliquiarum aedis quae Concordiae asseritur. Agrigenti in Sicilia”, in Della Magnificenza ed Architettura dei Romani, Roma 1761, Tav. XXII.

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Pannello con il Tempio della Concordia di Agrigento in policromia  (scala 1:1), appoggiato alla nuda fronte calcarea del monumento, realizzato dall’Ente Parco in collaborazione col Dipartimento di Storia dell’Architettura dell’Università di Firenze, 2009.

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